Dal 27 novembre al 6 dicembre, lo Spazio E di Milano ospita L’uomo e la città la mostra personale di Mario D’Amico a cura di Virgilio Patarini e con l’organizzazione di Zamenhof Art – Vi.P. Gallery. Una ventina di opere recenti e recentissime di medio formato, realizzate dall’artista romano, che indagano i rapporti tra uomo e contesto metropolitano in chiave spiccatamente metafisica.
Una pittura senza tempo capace di raccontare il nostro tempo con precisione algebrica e con toni di struggente elegia. Al centro il rapporto tra l’Uomo e la Città, protagonista di un’indagine paziente, minuziosa, precisa e mai ridondante, mai retorica, capace di invenzioni poetiche e metaforiche.
Mario D’amico: una pittura che gioca con il tempo, discendete diretta della Metafisica di De Chirico e Carrà
Mario D’Amico realizza una pittura che gioca col tempo: lo dilata, lo sospende. E in questo tempo sospeso, dilatato, l’Uomo e la Città affiorano alla luce tenue delle nostre coscienze per quello che sono oggi, tra solitudini e alienazioni, in un rapporto sempre in qualche modo sbilanciato. O l’Uomo è una minuscola, scialba figurina indistinta che a malapena si scorge tra i Palazzi squadrati e incombenti, e la Città regna sovrana e silenziosa, gigantesca e ineffabile; oppure viceversa, un Uomo enorme ma senza volto sovrasta i Palazzi per spostarli, sradicarli e trapiantarli altrove o per piantare sopra ognuno di essi un minuscolo scheletrico alberello, nel tentativo titanico e forse velleitario di dare vita ad una nuova più umana, ragionevole piuttosto che razionale, urbanizzazione.
Una pittura d’altri tempi, anche tecnicamente. Piccoli formati. Olio su tela. Eppure ogni suo quadro è un’epifania di assoluta attualità: un’epifania che di volta in volta ci rivela un’aporia, aperta come una ferita, o un’utopia, bruciante e disattesa come un sogno che al risveglio si dissolve, dei nostri tempi inquieti.
E in tutto quel silenzio assordante, in tutti quegli uomini senza volto, manichini di spiccata umanità, in tutti quei palazzi squadrati, in tutte quelle città sospese, astratte eppure così concrete… in tutti quegli enigmi, in tutte quelle metafore poetiche, sfumate eppure così definite, non si può non scorgere con evidente ambiguità una diretta discendenza dalla Metafisica di De Chirico e di Carrà: De Chirico per i temi, Carrà per la tavolozza. Eppure non c’è nulla di anacronistico in questa pittura d’altri tempi, si tratta forse di una Metafisica 2.0.