La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea presenta, da lunedì 24 ottobre 2022 a domenica 26 febbraio 2023, la collettiva “Hot Spot. Caring for a burning world”, a cura di Gerardo Mosquera.
“Hot Spot” prende il titolo dall’omonima opera di Mona Hatoum (“Hot Spot III”, 2009) inclusa in mostra: una grande installazione in ferro e neon che raffigura il pianeta Terra acceso da una luce rossa che simboleggia i conflitti che lo rendono rovente. L’opera racconta di come il modo dirompente con cui è stata organizzata la società umana sembri condurre alla catastrofe ambientale. Il fallimento del progetto moderno e della possibilità stessa di uno sviluppo armonioso dell’umanità nel suo ambiente è oggigiorno molto più che evidente e si colloca con forza al centro del dibattito contemporaneo.
Il percorso espositivo riunisce le molteplici reazioni a queste condizioni da parte degli artisti, attraverso la forza poetica dell’arte. Le opere selezionate approfondiscono la complessità della situazione attuale proponendo più che una visione di denuncia un attivismo estetico che intende stimolare la riflessione e sensibilizzare al disastro, per immaginare un diverso rapporto con il pianeta.
Spiega il curatore, Gerardo Mosquera: «è naturale che l’arte affronti temi così scottanti: molti artisti nel corso della propria carriera lo hanno fatto in modo militante, reattivo e pertinente, ma questa mostra, invece, contribuisce alla critica ecologico-sociale attraverso un percorso più indiretto, ma non meno urgente e puntuale. Il percorso espositivo non considera la questione come qualcosa di specifico, ma la apre e la amplifica esplorando altri aspetti, a volte ambigui e contraddittori, o armoniosi, suggerendo la possibilità di una rinascita dell’ambiente naturale, poiché la vita sulla Terra ha un’enorme capacità di resilienza.»
Se le opere di Mona Hatoum e Pier Paolo Calzolari raccontano gli effetti estremi che il clima può raggiungere attraverso il contrasto visivo e materico, la forza dirompente che possono manifestare gli elementi, come l’acqua, è riportata in “Flooded” di Kim Juree, dove si osserva la dissoluzione di un’architettura di argilla.
Gideon Mendel ha invece documentato con le sue fotografie la devastazione lasciata dallo scatenarsi sempre più frequente di inondazioni in diversi punti del Pianeta. A metà strada tra documentazione e fotografia di scena, l’approccio didascalico in queste opere è rafforzato dalla componente estetica. Allo stesso modo, attraverso immagini suggestive di acque che crescono sfidando la gravità, il video di Ange Leccia suggerisce l’idea dell’innalzamento del livello del mare.
La crescita vertiginosa della popolazione umana e la sua espansione vorace e incontrollata con il conseguente sfruttamento delle risorse ambientali, portano in primo piano anche la relazione con gli altri esseri viventi che abitano la Terra e che, durante il lockdown, si sono visti riappropriarsi di spazi vitali apparendo in maniera sorprendente lungo le vie cittadine. Queste apparizioni ricorrono nelle sculture di Davide Rivalta, i cui gorilla – animale in via di estinzione – accolgono il pubblico all’ingresso della Galleria.
La crisi della biodiversità, l’estinzione vertiginosa di specie animali e vegetali e la critica allo sviluppo violento delle aree urbanizzate sono al centro dei lavori di Daphne Wright e
Ida Applebroog, ed emergono con sottile ironia nel piccolo roadrunner fermo al confine tra Stati Uniti e Messico ritratto da Alejandro Prieto.
Non mancano le contraddizioni, come nell’immagine inquietante del video di Jonathas de Andrade in cui il pescatore abbraccia e accarezza il pesce che sta facendo agonizzare.
L’aumento della popolazione sul Pianeta va di pari passo con la sovrapproduzione di beni
e di conseguenza con l’aumento di sprechi e di rifiuti: è la spazzatura rappresentata con eloquente eleganza da Chris Jordan nella sua massività. I crescenti processi di urbanizzazione e tecnologizzazione del mondo hanno scarsa considerazione per l’ambiente naturale, dando vita a fenomeno inquietanti come le maree oscure ritratte da Allan Sekula. Le piante agitate dalle macchine nelle sculture in folle movimento di Rachel Young sembrano commentare questo aspetto, così come la manipolazione genetica e il passaggio ai cyborg e alla robotizzazione. La lirica visiva di Johanna Calle agisce in modo contrario: costruisce un albero con una macchina da scrivere.
Gli alberi sono i protagonisti anche delle opere di Cecylia Malik che porta l’attenzione sul disboscamento indiscriminato avvenuto in Polonia, contrapponendo alla morte dei tronchi recisi, la vita, con le madri che, sedute su quello che resta della foresta, allattano i propri figli. Michelangelo Pistoletto con cinque tronchi di albero specchianti crea un’immagine aperta sulle relazioni tra presenza umana e ambiente. Nel suo dipinto, Alex Cerveny trasforma la silhouette umana in un albero da frutto, circondato da uccelli.
Altre opere ricordano come troppo spesso l’uomo si ponga in una posizione di superiorità quasi patriarcale nei confronti della natura, come fa John Baldessari nel suo video imponendosi su di essa. Cristina Lucas reagisce proprio alla dimensione patriarcale con un femminismo radicale: nella sua ormai classica video-performance distrugge una copia del “Mosè” di Michelangelo, ribellandosi alle tavole della legge dettate dal potere.
Il videoclip del duo Ibeyi sembra esprimere l’opposto del controllo gerarchico sulla natura
in un canto rivolto al fiume, come fosse Ochún, la dea yoruba dell’acqua dolce, a cui cantano le artiste in lingua nigeriana.