Questa mattina nella lussuosa location del Hotel Saint Regis a Roma Alejandro González Iñárritu ha incontrato la stampa per parlare di Revenant – Redivivo. L’ultimo film che vede come protagonista Leonardo Di Caprio e già presente nelle sale italiane, ricevendo anche 12 candidature ai Premi Oscar 2016, risultandone il film con più nomination.

Come ha lavorato alla produzione di questo film?
A.G.I.:
Il processo che richiede la realizzazione di un film è un processo complesso ed interattivo per arrivare a questa arte ci sono molti elementi diversi e molti fatti diversi. Io ho avuto il privilegio di conoscere Chivo (Emmanuel Lubezki, ndr) quando eravamo più o meno ventenni e siamo diventati subito amici abbiamo girato insieme vari corti e poi abbiamo lavorato insieme per Birdman sono stato fin dall’inizio un suo grande fan.

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Quindi quando lo invito a partecipare a un mio progetto la prima cosa di cui parliamo sono appunto gli obiettivi che vorrei raggiungere, quindi la collaborazione parte proprio da quello che io voglio trasmettere. Poi ci sediamo a tavolino e cominciamo a parlare degli aspetti tecnici su quello che io voglio raggiungere, quello che voglio fare dal punto di vista narrativo ed emotivo. E poi ovviamente lui prova le varie macchine da presa, i vari obiettivi da utilizzare. Un processo che richiede tantissimo talento proprio per cercare di esplorare l’esecuzione, un’idea filosofica o una visione di un film che abbiamo in mente. Quindi una volta che abbiamo stabilito gli strumenti che dobbiamo realizzare allora parliamo del mondo in cui procedere e realizzarlo; noi abbiamo trovato un luogo e abbiamo giocato con i vari movimenti che dovevamo utilizzare. Ecco io cerco di progettare tutti gli aspetti che mi serviranno proprio per rappresentare la tensione drammatica. Cerco di progettare e ricreare tutto prima, ovviamente il contributo di Chivo è eccezionale, la sua conoscenza dell’uso delle luci è qualcosa di fantastico. Ogni movimento che si vede nel film è stato progettato almeno sei mesi prima. Quindi con lui non è solo una questione solo di aspetti fotografici o tecnici, ma riguarda anche l’aspetto del linguaggio che vogliamo trasmettere attraverso il film.

La macchina da presa è molto presente nell’iterazione con il protagonista, questo stile porta lo spettatore dentro al film

A.G.I.: Quando ho iniziato questo progetto, il mio primo obiettivo, quello che volevo fare era proprio creare la pressione, la sensazione del documentario, volevo proprio che gli animali e i paesaggi apparissero in tempo reale come se noi fossimo presenti lì, in quello specifico momento. Se avessi girato questo film 5 anni fa, prima ancora di Birdman e la tecnologia dell’epoca, sicuramente non sarei riuscito a realizzarlo come lo è ora. Il mio obiettivo è rimasto comunque quello di portare lo spettatore lì, farli entrare dentro, come se fosse una soggettiva, con un alto carico sulla fisicità. Per me era questo l’obiettivo principale, quello di unire il film ma anche un documentario, infatti ho letto recentemente su un giornale un titolo che parlava del nostro film e diceva “National LeoGraphic”.

Sembra essereci una componente Western, a quale parte dell’immaginario cinematografico ha attinto?
A.G.I.:
Quando ho realizzato questo film in realtà non avevo in mente dei Western, ho pensato piuttosto a degli altri film come quelli di Andrej Rublev, Andrei Tarkovskij, Dersu Uzala, Akira Kurosawa, Apocalypse Now di Coppola e tutti quei film che mi hanno ispirato perché questo film non è un western ma bensì un percorso spirituale e fisico in un’epoca in cui il west non esisteva ancora e quindi questi film sono molto epici, su larga scala, che rappresentano un aspetto intimo del personaggio e hanno anche una dimensione spirituale.

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